Simone Bertolini lo abbiamo conosciuto in un paio di edizioni di Ancona Foto Festival, quando con questo suo lavoro “in progress” partecipò a letture di portfolio e workshop.
E’ un piacere ospitarlo oggi proprio con quel lavoro, frutto di una serie di viaggi nel Myanmar, durante i quali ha potuto integrarsi e studiare a fondo la vita di una minuscola popolazione che vive nella giungla, in una sorta di simbiosi tra uomo ed elefante.
Capita a proposito la pubblicazione di questo lavoro, in un momento in cui tutto il globo è attanagliato dal problema della pandemia da corona virus, che ha sconvolto le nostre vite, le nostre comode abitudini, il nostro “inconsapevole” smisurato consumo di energia, di ambiente; leggendo il testo che accompagna il lavoro si capisce come, sulla faccia della terra, ci siano popolazioni ed esseri umani che gioiscono solo per il fatto che al mattino riescono a vedere la luce del giorno ed alzarsi.
Quindi, se volete entrare con Simone nell’atmosfera “giusta” di questo intenso lavoro, leggetevi il lungo testo di presentazione, altrimenti vi perdete il senso del tutto.
Se invece siete pigri – cosa che spero non sia – andate a fondo pagina e trovate il corposo portfolio, ma non sapete che vi perdete…

In the jungle
Fatica, sudore e fumo nelle foreste del Myanmar

Intro

Questa non è una storia di uomini né tantomeno di animali. Questa è la storia di una relazione. Di una simbiosi degli esseri viventi con un certo ambiente.
Un luogo a tratti ostile ma anche generoso con chi sa prendersene cura. È una vita dura, un’esperienza che si fa fatica a descrivere nella sua interezza se non la si è vissuta in prima persona assieme alle difficoltà e la fatica. Se non si è respirato per giorni quell’odore acre di carbone e si è lavorato fianco a fianco con uomini e bestie mischiando il sudore alle schegge di legno. Ascoltando le imprecazioni degli uomini in una lingua sconosciuta e i barriti di fatica degli elefanti che spostano tronchi mostruosi. Se non ci si è bagnati nei torrenti dopo una giornata di lavoro e si è cenato al lume di piccole candele fissate su pietre; luci fioche che disegnano ombre marcate sulle facce vissute delle persone che abitano le foreste del Myanmar.
Questa è una storia fatta di tagli sotto i piedi nudi che camminano per la foresta, del cigolio di pesanti catene legate ai tronchi, di fango che si attacca ai vestiti nei giorni di pioggia, di sentieri tortuosi che portano a colline da cui vedere la vastità di una jungla che ancora resiste. Di una vita antica, aspra e nobile allo stesso tempo.
È una voce roca, spezzata dalla stanchezza che la racconta e, per chi volesse conoscerla, immagini e parole sono qui, a testimoniare l’esistenza di vite lontane dalla nostra concezione e che forse, altrimenti, non conosceremo mai. Se siete pronti davvero ad uscire dalla vostra zona di comfort allora proseguite, o meglio, fate lo zaino e partite. Non ci sono foto abbastanza buone o parole giuste per farvi vivere quello che è davvero la vita lì, nella giungla.

Testo

Per chi intraprende un viaggio non è mai semplice prevedere cosa si va incontro. Ci si può documentare o chiedere consiglio ma la verità è che l’unica via percorribile è quella di improvvisare. Per un fotografo di strada e di reportage è l’unico modo per creare un lavoro autentico. Mi sono recato per la prima volta in Myanmar con l’idea di raccontare la fuga dei Rohinga dello stato del Rakine, perseguitati dal governo Birmano e scacciati verso il Bangladesh. Ebbene, mi sono ritrovato in un monastero e poi nella giungla dove sono ritornato per altre 3 volte.
Ho provato una seria ammirazione per le genti della foresta, spesso poco più che ragazzi, che vivono in simbiosi con gli elefanti. Anche se le loro età vanno dai 16 ai 30 anni preferisco comunque chiamarli uomini, la vita che conducono spezzerebbe chiunque di noi occidentali dopo una settimana. Ho ascoltato le loro storie attraverso la mia guida che traduceva le loro parole per me e trasmetteva i miei pensieri a loro. La comunicazione è tutt’altro che semplice nonostante la traduzione. C’è una traccia di lingua comune ma l’isolamento ed il numero ridicolo di giorni di scuola ha portato queste comunità a sviluppare un loro dialetto, complicato da intendere e ascoltare anche per un birmano. I discorsi appaiono quasi banali, o infantili anche se in fondo non lo sono. Per questi uomini sono una piccola scintilla di svago, di un’infanzia che non hanno mai veramente avuto. Quella che noi occidentali definiremmo spensieratezza la trovate nella semplicità dei loro dialoghi e negli scherzetti che a volte si fanno tra loro per staccare il cervello dalla durezza di un’esistenza che per loro è ben più volatile che per noi. Non penso siano consapevoli della loro situazione, forse non hanno neanche il tempo per pensarci davvero, ma quando hanno dei rari contatti con l’esterno, intravedono una realtà per loro completamente aliena. Loro sono troppo timidi per chiedere e io troppo imbarazzato per mostrare troppo. Essere consapevoli della grazia ricevuta di essere nato in un paese sviluppato mi porta a condividere con loro ben poco di quello che è l’occidente. Così mi limito a raccontare come sono fatte le città mostrando qualche sparuta foto delle nostre jungle d’asfalto e automobili superaccessoriate.
Nelle notti umide, tra il fumo del fuoco e quello delle sigarette fatte a mano, ci si racconta di avventure sentite da qualcuno dei campi vicini o degli ultimi fatti accaduti giù a Taungoo, il centro urbano più vicino. Si va a turno, ogni mese, giù in città che dista circa un paio d’ore di trekking e altre tre di guida attraverso strade per lo più sterrate. il giorno invece si parla poco e si lavora tanto. Gli unici interlocutori sono gli elefanti che obbedienti ascoltano i comandi degli uomini. Anche loro hanno un carattere e lo si nota subito. Qualcuno scatta agli ordini, altri sono pigri, altri invece protestano con grugniti che sono inequivocabili vaffanculo rivolti a chi gli fa spostare quei maledetti tronchi. È una vita di amore e odio quella degli elefanti, non sanno perché siano costretti a fare quello lavoro e non sanno che in realtà uno dei compiti di quegli uomini è difenderli dai bracconieri. In qualche modo però capiscono che ogni giorno i bipedi li lavano al torrente e spesso li premiano con manciate di banane, oltre a lasciarli liberi per ore in modo da sfamarsi. Secondo il veterinario che ho incontrato questi animali hanno una speranza di vita ben più lunga di quelli selvaggi. Non ho risorse per verificarlo né mi interessa particolarmente. In fondo sono solo un testimone.
Qualche elefante, di quelli più ubbidienti, non porta neanche le catene nelle ore di libertà perché non si allontana mai più di qualche km dal campo base. Altri invece hanno catene attorno le zampe per accorciare la falcata ed evitare vadano troppo lontani.

È rumorosa la jungla di notte, più di quanto si possa pensare. Ci sono rane e grilli che creano la base assieme allo scorrere del ruscello che è la vita per le piccole comunità che popolano le foreste. Nessuno si accampa lontano dal ruscello, l’acqua è troppo importante. A interrompere questo sottofondo continuo ci sono le campane. Campanacci di metallo o di legno che portano al collo gli elefanti che vagano per la foresta in cerca di bamboo fresco. Sí perchè i loro padroni, o master come si chiamano tra loro, li devono cercare ogni mattina all’alba per fargli trasportare tronchi mostruosi. Le campane di metallo sono per gli elefanti più aggressivi e se ne sentite una quando siete da soli nella foresta vi conviene diventare un fottuto tarzan e mettervi su un albero o sperare che l’elefante sia col suo master, l’unico a cui risponde. Oltre alle campane poi si sentono i tronchi di bamboo spezzarsi come grissini. Dei petardi fatti esplodere dalla potenza delle proboscidi. Passano quasi tutta la notte a cibarsi, provate voi a mettere insieme i 250kg al giorno di foglie. Non è uno scherzo.
Di luce quando cala il sole, non ce n’è. E se pensate che una luna per quanto piena possa rischiarare allora avete decisamente letto troppi libri scritti da chi nella jungla non ci ha passato neanche una notte. Ci sono solo delle deboli scie di luce che vagano confuse per il campo e sono le torce, di solito mezze scariche e aggrappate alla testa che oscilla stanca nella notte. Roba cinese, da un dollaro, che dura ben poco ma funziona abbastanza per non farvi finire in un fosso. I fuochi sono deboli e servono per lo piú a tenere lontani i serpenti. Seppur l’idea di accendere un fuoco sotto una casa di bamboo non mi sembra una pensata da intellettuale della foresta, loro lo fanno e non mi sembra carino arrivare da straniero a obbiettare qualcosa. E poi, per qualche incomprensibile ragione, le statistiche di morti per incendio sotto la capanna non sono disponibili. Per scaldarsi davvero, se proprio dovete, c’è un distillato fatto in casa a metà tra un rum e una 95 ottani. Piú tendente alla 95 ottani. Dovrebbero essere delle bacche o frutta o anche buccia di banana fermentati fino a diventare quasi allucinogeni se ne bevete la giusta dose che comunque dubito arriverete mai a bere. E se per caso arrivaste mai a farlo vuol dire che il vostro fegato deve esser già un pezzo avanti.
Dai buchi nel terreno poi viene fuori un odore acre di carbone vegetale che rendono l’aria del campo perennemente satura di fumo che brucia gli occhi come un bbq venuto male. La sveglia è ovviamente all’alba e non aspettatevi panckakes fumanti ma solo una tazza di tè e forse un po di riso. Spesso cotto nel bamboo perchè di pentole non ce ne sono tante. 
La giornata deve iniziare presto e finisce quando c’è ancora un po’ di luce, qualche volta se c’è un camion che aspetta però si lavora anche al buio per trasportare carbone vegetale o tronchi con gli elefanti. Questi 100$ al mese non si portano a casa come una giornata in ufficio. Fango acqua e sudore si mischiano continuamente nella jungla del Myanmar a qualche ora di jeep dalla città più vicina. Non lo scegli ma ci nasci e in fondo ti va anche meno peggio di altri. Qualcuno se ne va, spesso in Thailandia, a lavorare in qualche fabbrica per 3/400$ dollari ma senza ferie pagate e con un giorno di riposo alla settimana. Il problema però non sono i soldi ma quello che ti costa la vita. Si dorme in 4/5 nella stessa stanza e i primi 4 mesi lo stipendio è un miraggio visto che l’agenzia che ti piazza si tiene l’80%. E poi c’è la città, per uno che non ha visto altro che alberi ed elefanti può essere una cazzo di sanguisuga che con i suoi scintillii ti fotte neanche tanto lentamente tra gioco d’azzardo, donne e alcool. Molti tornano per la disperazione, se hanno ancora una famiglia che gli paga il viaggio di ritorno. Altri finiscono per strada e pochissimi riescono a continuare una vita in fabbrica e a mettere qualcosa da parte. Il problema poi di chi riesce a tornare è che l’orgoglio li porta a nascondere la realtà del fallimento agli altri che poi si avventureranno nella stessa fatale impresa.

Ma torniamo nella foresta dove le stagioni non hanno grosse differenze: “caldo/più caldo – fango/più fango. Tra uomo ed elefante non c’è quella che chiameremmo un’amicizia. Non è niente di incondizionato, lo chiamerei più rispetto dove gli uni hanno bisogno degli altri. Gli uomini devono spostare tronchi e gli elefanti hanno bisogno di qualcuno che li protegga da bracconieri, spesso cinesi, in cerca di avorio e pelle per le medicine. Lo stato non poteva occuparsene quindi ha delegato tutto alla gente della jungla. Badare agli animali in cambio dei loro servigi, anche se non propriamente consenzienti. Ma almeno è un accordo part-time dove gli animali hanno addirittura più di mezza giornata libera, malattia, ferie, maternità e gravidanza riconosciuta per un paio d’anni. Molto di più di quello che si possa aspettare una donna italiana. La beffa è che il veterinario e le medicine sono gratuiti per gli elefanti mentre per gli uomini no. Gli elefanti vengono lavati ogni giorno, è importante che stiano lontano dalle malattie e infezioni. Se un elefante non lavora è un problema serio per il suo master e ancor più serio per l’elefante perché vuol dire che non sta bene. Certo le catene non sono il massimo ma per alcuni elefanti va fatto per il loro bene. Se si dovessero allontanare troppo dal campo potrebbero finire preda dei soliti bracconieri. In un mondo perfetto saremmo tutti liberi, uomini ed elefanti. Ma essendo tutto così lontano dall’essere perfetto direi che ci sono imperfezioni peggiori al momento. Non è giustificazionismo ma la verità così com’è, senza fronzoli e cruda con l’odore acre del fumo, la merda di elefante ovunque e il sudore degli uomini che abitano la jungla. Non è né una storia triste né un lieto fine. È solo una storia come tante fatta di uomini ed animali di cui nemmeno sospettavate l’esistenza. La vita scorre veloce in occidente, qui si trascina lenta e per ogni cosa ci vuole tempo. È per questo che in Myanmar sono dannatamente pazienti. Una settimana di lavoro per raccogliere il legno, un giorno o due per scavare una piccola grotta dove farlo asciugare e poi 10 giorni di combustione sotto la terra perché diventi carbone. Infine altri 2 giorni per raccoglierlo, setacciarlo e portarlo alla strada. 50 sacchi di carbone sono più o meno 150$ da dividere per almeno un paio di famiglie. Con il teak è un’altra storia. Per un tronco si riescono a fare almeno 260$ per una tonnellata di teak che poi viene rivenduto a 700$ in città. Il problema è che il legno buono è quello degli alberi di almeno 70 anni e hanno iniziato solo 5 anni fa un vero programma di riforestazione. Per troppi anni la foresta ha dato senza ricevere niente indietro. Non rimane quindi che tagliare qualche albero ogni tanto ma bisogna andare davvero nel profondo della jungla e poi trasportare il tronco fino al campo base. L’altra faccia della medaglia è che poi intere colline sono ora destinate solo al Teak con tanti cari saluti a quella cosa chiamata biodiversità.
È sorprendente quanto sono agili gli elefanti su pendii scoscesi ma anche loro hanno dei limiti. Sono censiti e controllati periodicamente dallo stato. Se un elefante si fa male non sempre si aggiusta, quasi mai in realtà, e il suo master finisce dentro senza troppi processi. Quello che dice il veterinario è legge e se dice che l’uomo ha esagerato non ci sono appelli o controprove. Non rimane quindi che tagliare alberi più semplici da raggiungere anche se meno pregiati per farci carbone. Il bamboo cresce in fretta e per un guadagno vero bisogna tagliarne tanto, troppo e il gioco non vale sempre la candela anche se spesso ci si accontenta pure di quello. La cosa più vicina a un amico che hanno questi uomini è la motosega. Roba cinese ma che comunque costa un paio di mesi di stipendio e che si rompe spesso. Hanno imparato ad aggiustarla tutti e la tengono affilata come un samurai la sua spada. Vedere ragazzi di appena 20 anni e 60kg scarsi usarla per buttare giú alberi enormi è un evento che ha un qualcosa di affascinante. Le braccia sono completamente contratte mentre reggono le vibrazioni e si rilassano solo dopo che l’albero cade con un boato che squote il terreno. Fino a 3/4 anni fa era tutto fatto a mano e solo le famiglie che vendevano parecchio teak al mercato nero potevano permettersi una motosega, poi i cinesi hanno deciso di copiare quelle tedesche ma a un quarto del prezzo e probabilmente un decimo della qualità.
I ragazzi se ne prendono cura come fosse una figlia. La affilano ogni giorno e la smontano in continuazione per verificare che tutto sia oliato e ogni vite sia stretta al punto giusto. Non ve lo immaginate neanche quanto sia delicata una motosega e sono consapevole di quanto suonino assurde le parole “delicata” e “motosega” nella stessa frase. Nel buio della notte dopo una giornata di lavoro o all’alba fresca della jungla i ragazzi sono lì ad aggiustare la loro amica motosega di cui non hanno neanche mai letto delle istruzioni, essendo in cinese, e considerando anche il basso grado di alfabetizzazione sarebbe complicato anche fossero scritte nella loro lingua. È tutta una questione di esperienza, tatto e orecchio. Si accorgono da una vibrazione diversa o un suono strano. A forza di aprirla e osservare come è fatta dentro hanno imparato a prendersene cura e aggiustarla quando occorre.
Se avessero il materiale sarebbero anche in grado di costruirne una scommetto.

La cucina della jungla offre diverse opzioni ma tutte a base di riso. Nei camp ci sono spesso gruppetti di galline che vagano sotto le palafitte in cerca di avanzi, i cani, che fanno compagnia agli uomini, sono più secchi di top models e qualche volta capita di vedere uno o due maialini grufolare in giro. Ovviamente mai troppo in carne.
Non di rado si incontrano anche buoi che sono una mezza alternativa agli elefanti per spostare tronchi anche se per un tronco medio ce ne vogliono 8 di buoi per fare il lavoro di un elefante. Senza contare poi che i buoi possono solo trainare i tronchi e mai sollevarli. In compenso però ti danno il latte che nella jungla non è poca cosa. Le donne si occupano anche di piantare qualche ortaggio in un piccolo orto. Qualche opzione per condire il riso quindi c’è. A volte capita pure il menu di pesce quando la notte qualche uomo si reca al torrente a pescare i gamberetti di fiume usando la zanzariera come rete. Nulla di complicato se non fosse buio pesto: ci si mette a favore di corrente e si fa un imbuto con la zanzariera incastrandola tra due rocce. In un’oretta una quarantina di gamberi li dovreste prendere. Si potrebbe star piú tempo ma bisogna sempre far i conti con le torcette cinesi e le batterie sono limitate.
Se nella vostra palafitta c’è quindi un persistente odore di gamberi sapete ora a cosa è dovuto.
Il riso spesso viene cotto in canne di bamboo messe tipo spiedo sul fuoco e quando pronte si aprono con un coltello. Il riso rimane condensato nella cellulosa interna delle canne che viene tagliata in polpette. Il sapore è discreto e assieme a delle focacce di patata e farina di mais era la cosa più interessante mangiata durante la mia permanenza nella foresta. La carne di scimmia assieme a quella di una specie di roditore a metà tra un topo e una marmotta la peggiore.
Di persone sovrappeso non se ne vedono e considerando che si mangia qualcosa a colazione e niente fino a cena penso sia normale.
D’inverno ci sono poche ore di luce e vanno sfruttate tutte, d’estate invece piove spesso e le ore per lavorare sono le stesse che in inverno nonostante ci siano giornate più lunghe.
Inoltre il fango e i torrenti ingrossati dalle piogge rendono il trasporto dei tronchi più complicato per gli elefanti. Solo quando la pioggia è veramente pesante ci si ferma dal lavoro per stendere teli di plastica sui tetti di bamboo delle palafitte ed evitare di ritrovare la casa più umida di quanto già non sia.
Ogni 3/4 mesi il campo va spostato, gli elefanti hanno bisogno di tanto bamboo e gli uomini di alberi da tagliare.
Quando si sposta il campo si lasciano le palafitte come sono, troppo lavoro smontarle e trasportarle per poi rimontarle. Di solito si portano via solo le pareti e i pavimenti che sono fatti di corteccia di bamboo intrecciata. In occidente le potremmo al massimo usare come separé. Spesso però vanno comunque rifatte quindi ogni 8/9 mesi gli uomini e le donne si rimettono a “capare” il bamboo e rintrecciare i pezzi di corteccia in un lavoro che farebbe spazientire anche Madre Teresa.
Una palafitta la si fa in giusto in qualche ora, mezza giornata al massimo, se sapete come fare. Loro lo imparano a circa 10 anni. La scuola della foresta prevede infatti parecchie materie inusuali per noi.
Uso del coltello a 3/4 anni; frammentare e filtrare carbone a 6; ingegneria delle palafitte a 10/12; gestione di un elefante a 13/14; uso pratico della motosega a 15. Ci sono delle scuole rurali qui e lì ma a seconda di quanto dista il campo dalla strada più vicina i bambini vanno a scuola solo uno o due giorni a settimana fino a che non hanno almeno imparato le basi del leggere e scrivere.
Ultimamente per sopperire ai problemi di alfabetizzazione sono stati donati dal governo diversi pannelli solari che servono ad alimentare batterie collegate a piccole luci led appese alle capanne per dare la possibilità ai bambini di leggere e studiare anche dopo il tramonto.

Appendice

Cos’è stato tutto questo? Perché, vi chiederete, sono andato in posti così remoti? In fondo storie dure e non raccontate si trovano anche nel nostro quartiere.
La mia risposta è che ho bisogno di aprire la mente il più possibile, il mio è un esercizio di volontà. Ho bisogno di provare lo shok emotivo, l’incomodità e la solitudine del non essere a casa ed essere tra persone lontane dal mio mondo senza alcun possibile punto d’incontro. Ho bisogno di schiantarmi in corsa contro il muro della differenza per abbatterlo e comprendere. Ho bisogno di andare lontano per capire da dove vengo e ricordarmi della fortuna del nascere dalla parte giusta dei binari come dicono in America.
Non c’è un vero insegnamento in questa storia, c’è solo un racconto da cui ognuno trae quello che vuole. Tuttavia ho un desiderio: quello che da questa storia dove di speranza ce n’è poca, oppure molta, a seconda di come vogliate vederla, sviluppaste quella cosa chiamata empatia. Conoscere, viaggiare, anche solo guardando degli scatti forse può aiutarvi anche in minima parte ad essere più umani. Oggi abbiamo bisogno sempre di più di esserlo.

– Il portfolio